lunedì 18 giugno 2012

Sperimentazione sul lavoro dei giudici contro il multitasking


Che i tempi della giustizia in Italia siano eccessivamente lunghi lo sanno anche i muri. Le cause di questa flemma procedimentale sono molte: l’eccesiva litigiosità delle parti e degli avvocati, le sentenze forse fatte male e facilmente attaccabili in sede di impugnazione, le troppe garanzie di difesa e contro difesa, le numerose udienze da compiersi prima di giungere alla fine del processo, il gravoso carico di lavoro degli uffici giudiziari, la mancanza di risorse in termini di strutture e di persone, e così proseguendo si potrebbe andare avanti. Molte le cause quindi, ma poche le soluzioni. O meglio, qualche idea ed espediente è stato inventato, ad esempio maggiori preclusioni processuali, la preliminare mediazione nel processo civile, sezioni "filtro" che valutano l’ammissibilità dei ricorsi (in Cassazione), sanzioni pecuniarie per lite temeraria e molti altri, ma non è abbastanza. Nulla infatti è stato ancora risolutivo del problema. 

Da poco invece è iniziata una bizzarra sperimentazione nell’ambito della Corte di Appello sezione lavoro di Roma, in cui si sta cercando di attuare delle strategie di lavoro col fine di ottenre un risparmio in termini di tempo. Lo studio a monte riguarda la produttività e il multitasking. In informatica, un sistema operativo con supporto per il multitasking (multiprocessualità) permette di eseguire più programmi contemporaneamente: se ad esempio viene chiesto al sistema di eseguire contemporaneamente due processi A e B, per qualche istante viene eseguito il processo A, poi per qualche istante il processo B, poi tornerà ad eseguire il processo A e così via.  
Sul lavoro e nella vita reale accade spesso che ci ritroviamo assillati da scadenze continue che richiedono attenzione e, di fatto, non ci consentono di concentrarci su un unico compito e tale fenomeno viene chiamato multitasking. Ma fare troppe cose insieme non è produttivo. I sociologi che studiano l’uso del tempo sul lavoro riportano nei loro risultati statistici che una grande proporzione del tempo dedicato ininterrottamente a singole attività è costituito da intervalli di tempo molto brevi. Tali studi evidenziano palesemente da una parte come l’uso del tempo sul lavoro sia molto frammentato e dall’altra come questa frammentazione sia dannosa. Svolgere troppe cose per volta danneggia la produttività sul lavoro così come in casa e nella vita. Passare da un’attività all’altra riduce la produttività sia perchè si interrompe un lavoro per poi ricominciarlo più avanti perdendo ovviamente il ritmo e il filo, ma anche per una ragione matematica. Possiamo fare un esempio di come il multitasking danneggia la produttività (fonte www.lavoce.info).
Supponiamo che per finire il progetto A ci vogliano due giorni, e altri due giorni per finire il progetto B. Se io lavoro i primi due giorni sul progetto A e poi dopo mi dedico interamente al progetto B, finirò A al secondo giorno e B al quarto. È la maniera efficiente di procedere. Supponiamo invece che io lavori un giorno su A, poi un giorno su B, poi ritorni ad A e lo finisca e poi il quarto giorno finisco B. Quanto sono durati i due progetti? Adesso A ha impiegato 3 giorni e B quattro giorni come prima. Quindi, il multitasking ha rallentato A senza peraltro accelerare B.
Nell'ottica del cliente è sicuramente preferibile che chi lavora esegua i due progetti in modo sequenziale e non parallelo. Ed è proprio questo che si sta cercando di fare nella Corte d’appello sezione lavoro di Roma, semplicemente applicando il principio dell' "una cosa per volta". Come tutti i lavoratori, anche i giudici gestiscono troppe cause assieme, a causa dell'immensa mole di lavoro che inonda gli uffici giudiziari. Le cause pendenti sono quasi mille per giudice e tra queste un giudice lavora contemporaneamente a 400 cause. La sperimentazione fa concentrare ogni giudice su un numero molto minore di cause, circa un centinaio. Così facendo si dovrebbe ottenere una più rapida definizione dei procedimenti. Proprio come nel nostro esempio, dove il caso A viene definito prima se riceve un’attenzione ininterrotta. Gli altri 300 casi rimarranno chiusi fino a quando il giudice non ha definito i casi aperti in precedenza. Così facendo, si noti, non c'è un danno per i 300 casi “rinviati”: infatti, nell’esempio se il progetto B si apre solo al terzo giorno,  viene definito comunque al quarto giorno. In altri termini, posticipare la data di apertura del progetto B non pospone la sua data di completamento.
I primi risultati della sperimentazione in Corte d’appello sembrano essere incoraggianti dato che il miglioramento riscontrato è di circa il 20 per cento. Per le aziende e i lavoratori significa una più veloce definizione dei procedimenti e per lo Stato, significa risparmiare sugli ingenti risarcimenti che la legge Pinto prevede per le parti dei processi che si protraggono eccessivamente nel tempo. 
Ridurre i tempi della giustizia italiana deve essere un obiettivo primario dei nostri tempi, per non isolare il nostro paese dal resto del mondo. Occorre da un parte evitare che dall'estero le imprese non si insedino nel nostro paese per paura delle conseguenze di alcune leggi e per il terrore di non poter mai risolvere i problemi giudiziari, e dall'altra che le imprese nostrane non emigrino altrove.

Link ad un articolo del blog sul tema specifico della legge Pinto del 2001 e il diritto ad un'equa riparazione per l'irragionevole durata di un processo: Processi lunghi: troppo ritardi nei risarcimenti
Un altro articolo riguarda invece proposte ed iniziative per specializzare da un punto di vista manageriale i nostri lenti tribunali: Proposte per rimediare alla lentezza della giustizia civile

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